L’eroica morte sotto il piombo tedesco del 1° Aviere Salvatore Rubini a Rodi nel febbraio del 1945 venne portata a conoscenza di mio padre, ultimo comandante dell’Aeronautica dell’Egeo, soltanto al principio degli anni ’90 tramite gli scritti di Gino Manicone, autore di vari libri sulle vicende italiane nel Dodecaneso e grande fu il rammarico di mio padre, ormai alla fine della sua esistenza, per non essere più in grado di onorare degnamente questo giovane di cui mi parlò come di un “Salvo D’Acquisto di Rodi”.
Nel sessantesimo anniversario della sua fucilazione sento pertanto il dovere di rievocarne la figura perché il suo sacrificio valga d’esempio per la nostra e le future generazioni
Salvatore Rubini nacque nel 1918 a Raccuja (Messina) e durante l’ultima guerra prestò servizio nell’Aeronautica dell’Egeo. All’indomani dell’armistizio, dopo la breve ma cruenta lotta ingaggiata dalla guarnigione italiana di Rodi contro i tedeschi, al momento della resa si trovò a dover scegliere tra la prigionia e la collaborazione con i vincitori. Con i più indomiti preferì fuggire in montagna dandosi alla macchia. Mentre si trovava in clandestinità strinse un patto di sangue con il S.Tenente di Artiglieria Luigi Baggiani che aveva lottato contro i tedeschi fino all’ultimo istante con il 2° Capo della Marina Pietro Carboni, che sarebbe morto eroicamente un anno dopo meritando la medaglia d’oro al V.M.
Attorno a loro si formò una rete di oltre cento resistenti (tra militari e civili italiani e greci) che si riunirono principalmente in due gruppi: il gruppo Carboni che operava nel nord dell’isola e il gruppo Baggiani che operava al sud, nella zona montuosa presso Cattavia. Il gruppo del sud nel corso del 1944 condusse numerose scorrerie, azioni di sabotaggio e attacchi improvvisi ai convogli in transito. Dalle testimonianze di Baggiani apprendiamo di uno scontro con una pattuglia tedesca su i monti sopra di Vati il 15 maggio, la distruzione dei magazzini viveri dei tedeschi nei pressi di Lacanià il 12 giugno, il sabotaggio di aerei alle officine aeronautiche di Gandelli in luglio, l’incendio di un deposito di munizioni il 19 settembre e la notevole propaganda svolta nei campi di concentramento di Cattavia e Laerma per spingere i nostri militari alla resistenza.
Durante la primavera del 1944, temendo ancora uno sbarco degli alleati nei Balcani, i tedeschi programmarono un piano di evacuazione del Dodecaneso per evitare di rimanere isolati; tale piano contemplava, tra l’altro, la distruzione delle banchine portuali, della centrale elettrica, della centrale telefonica e di alcuni stabilimenti industriali di Rodi. Di fronte ad un tale evento che avrebbe reso ancora più penosa la situazione della popolazione locale, già stremata dalla fame, il podestà di Rodi, Antonio
Macchi, pensò di reclutare nella massima segretezza un gruppo di militari italiani alla macchia con l’incarico di impedire i sabotaggi che i tedeschi stavano predisponendo. Si trattava principalmente di disattivare le mine e in ultima istanza di annientare gli artificieri tedeschi preposti al brillamento delle medesime. L’ing. Macchi, ufficiale di Artiglieria, che su richiesta del V.Governatore Civile Igino Faralli era stato smobilitato e con il consenso dei tedeschi nominato podestà di Rodi, era in effetti il capo segreto della resistenza dell’isola. Pur avendo all’epoca soltanto 26 anni, era una persona di grande equilibrio e fermezza che con diplomazia riusciva a tenere discreti rapporti con i tedeschi. Macchi fece venire da Cattavia a Rodi Baggiani e Rubini per creare un gruppo antisabotaggio. Riuscì a contattarli tramite il titolare di un’impresa, un certo sig. Lazzari, che stava eseguendo dei lavori a Cattavia e che poteva trasportarli a Rodi con il suo camion. Era però necessario munire i due militari di documenti falsi per permettere di superare i blocchi tedeschi. Il Lazzari scattò delle foto formato tessera e la signorina Andreina Perrone, già insegnante elementare a Cattavia, che a quel tempo prestava servizio presso il Comune di detta località, fece sparire due modelli in bianco di carta d’identità. In tal modo Baggiani e Rubini poterono raggiungere Rodi senza difficoltà.
Nei giorni seguenti al Comune di Cattavia si accorsero della sottrazione dei documenti e la Perrone (che Baggiani nei suoi ricordi chiama “l’angelo biondo “)venne incarcerata ma ben presto liberata per motivi di salute. Recentemente la signora Perrone, tuttora vivente e residente a Marina di Carrara, ha rilasciato una testimonianza scritta dei fatti, conservata ora presso l’Ufficio Storico dell’Aeronautica.
Dopo gli sbarchi in Francia, l’ipotesi di un’invasione della Ba1cania venne meno e il piano di sabotaggio tedesco fu abbandonato (quando già il gruppo antisabotaggio aveva già iniziato le sue operazioni tagliando qualche cavo). Successivamente il S.Tenente Baggiani fu catturato dalla Gestapo ma riuscì ad evadere e l’ing. Macchi gli procurò una barca a remi con la quale potè, nell’ottobre 1944, riparare in Turchia con altri 5 resistenti. Rubini invece, rimasto senza il suo migliore amico, dopo undici mesi di lotta trascorsi nascondendosi in rifugi sempre più precari, soffrendo spesso la fame e il freddo, decise di riavvicinarsi a Cattavia dove venne aiutato dalla famiglia di Demetrio Papademetrio, la cui consorte Tarena Papastamatis veniva chiamata “la madre dei resistenti italiani” per la generosa assistenza che prestava a quelli in clandestinità. Manicone ce la descrive come una donna semplice e dimessa ma dallo sguardo vivo e penetrante da “eroina arcaica”.
Un giorno Rubini fu visto nei pressi della casa di Papademetrio da una spia che ne informò il capitano delle S.S. Niklas, noto persecutore dei militari italiani, che fece immediatmente circondare l’abitazione del greco ma di
Rubini non trovò traccia in quanto questi, subodorando il pericolo, si era allontanato nelle campagne circostanti. Niklas fece allora arrestare Papademetrio e tutta la sua famiglia minacciando di fucilarli se entro tre giorni Rubini non si fosse consegnato. Rubini, venuto a conoscenza della gravissima situazione dei Papademetrio, con estremo coraggio e grande generosità si presentò entro i termini previsti al Comando tedesco dichiarando le sue vere generalità. I greci furono liberati sulla base della sua dichiarazione che essi avevano come unica colpa aver dato un pezzo di pane ad una persona affamata. Rubini venne trasferito al campo di eliminazione nord (Casa del Pini) dove, prima di essere fucilato, fu torturato per strappargli notizie su i suoi compagni, tra i quali l’ing. Macchi ed il V.Governatore Faralli, ma dalla sua bocca, nonostante le sevizie, non uscì verbo. Non si conosce la data esatta della sua morte ma si ritiene che comunque sia avvenuta nel febbraio del 1945. I suoi miseri resti ora riposano nella cassettina n0469 dell’Ossario Militare di Bari. L’ing. Macchi negli anni ’90 produsse una documentazione perché venisse concessa a Baggianni e a Rubini una decorazione al valor militare ma il Ministero della Difesa rispose che ormai erano scaduti i termini per la presentazione di tali domande. Nel 1945-46 la Commissione per la tutela degli interessi italiani nel Dodecaneso inviò relazioni sul comportamento eroico di alcuni militari per portarono, tra l’altro, alla concessione della medaglia d’oro al citato Carboni. Ma, secondo quanto dichiarato dallo stesso ing. Macchi, presidente di detta Commissione, le drammatiche vicende dell’esodo degli italiani dal Dodecaneso fecero passare in second’ordine il problema delle proposte al valore, comprese quella di Rubini e quella di Baggiani. Poi la Commissione si sciolse e nessuno parlò più. Ritengo comunque che, in un’epoca nella quale si cerca di rivalutare il comportamento di tanti militari italiani che sacrificarono la loro vita ai tempi della Resistenza, sia giusto ricordare questo giovane eroe dell’Aeronautica, che ha saputo sublimare il suo dovere di soldato con i valori universali dell’umanitarismo civile.
Franco Briganti