Tale Settore era strategicamente importante perché controllava oltre ad un tratto della rotabile orientale dell’Isola anche due ampie baie marine, facilmente accessibili ad eventuali sbarchi nemici. In tale sito, infatti, sbarcarono le truppe del Sultano Solimano , l’anno 1522 e le truppe italiane l’anno 1912. Il Settore era presidiato dal 331.o Reggimento Fanteria «Brennero» al comando del Col. Enzo Manna. La rotabile orientale nel tratto da Afando ad Arcangelo s’interna in una strettissima gola costituita dai colli Plaia e Zampica, formando una vistosa strozzatura. A difesa di tale posizione la mattina del 9 Settembre venne schierata la la Compagnia del 3310 Fanteria, comandata dal Capitano Mariano Venturini. Fu proprio qui, in questa solatia contrada di Rodi che avvenne il primo scontro emendo fra italiani e tedeschi, inaugurando quell’epopea conclamata come «RESISTENZA». In tale scontro possiamo distintamente osservare ed apprezzare il valore, la purezza e la dedizione alla Patria di questo piccolo reparto e del suo indomito comandante e per converso le indecisioni, i ritardi e gli equivoci dei comandanti superiori. Per l’onore dovuto ai suoi protagonisti, riportiamo in questo volume lo studio sincero e puntuale degli avvenimenti fatto dall’amico Generale Gaetano Messina che ne fu diretto testimone perché in quel momento quale Tenente di fanteria prestava servizio proprio nel 3310 Reggimento «Brennero» e nello stesso luogo dello scontro.
«Il Col. Manna (ora deceduto) in una sua relazione datata 1113/1965 precisò che i suoi ordini furono di:
– prendere posizione fra M. Zampica e M. Plaia sbarrando l’unica rotabile della zona Est dell’isola che adduceva alla città di Rodi;
– interdire, se attaccati, col fuoco possibili movimenti di truppe tedesche già schierate nei pressi di Arcangelo.
In conseguenza di tali ordini ricevuti da Superegeo e della particolare situazione venutasi a creare nell’isola, la la Compagnia del 3310 Fanteria era destinata ad essere l’unico reparto a dover sostenere con certezza uno scontro a fuoco con truppe tedesche. Prosegue il Manna: «L’azione che si attendeva dalla 1a Compagnia era considerata dai competenti di determinante risoluzione per iniziare il primo atto di agganciamento tattico fra truppe fino a poche ore prima considerate alleate. Tale grave compito poteva essere assolto unicamente da ufficiale che offriva il massimo affidamento per doti di combattività già collaudate su altri fronti di guerra.
Il reparto raggiunse la località ordinata all’ alba del giorno 9 Settembre, senza aver ricevuto alcuna assistenza logistica. Furono subito impartiti gli ordini per lo schieramento delle armi automatiche e dei pezzi controcarro; furono concordate le opportune intese per l’intervento della sezione da 105/28 già sul posto.Ed ecco che si verifica un susseguirsi di ordini assurdi da parte dei Comandi Superiori, che pervennero al Capitano Venturini, qui elencati in ordine cronologico.
Ore, 08,15: il Ten. Col. Marcelli telefona al Cap. Venturini (il collegamento era assicurato tramite il posto comando della sezione artiglieria) per confermare l’ordine di «interdire» il transito sulla rotabile alle truppe tedesche «e aggiunge:» senza però aprire il fuoco. L’assurdità ditale ordine è davvero incomparabile e costituisce un classico esempio di «contraditio in terminis», perché sarebbe stato davvero interessante conoscere la risposta del predetto Col. Marcelli alla domanda di come sarebbe stato possibile interdire il passaggio ai tedeschi, potentemente armati, se non fermandoli con il fuoco delle armi disponibili. Ore 09,00 il Comandante del battaglione, probabilmente resosi conto del non senso del suo precedente ordine, lo modifica prescrivendo di «lasciar transitare qualsiasi mezzo tedesco, anche colonne di autocarri o panzer anche se procedenti verso la città di Rodi».Come si può rilevare, è stato un crescendo di disposizioni negative rispetto al compito primitivo assegnato al reparto; si può ben dire: «Crescendo di contrordini» che in pratica rendeva nulla la presenza della compagnia a Passo Zampica. Ben diversamente la pensavano gli uomini e lo stesso comandante del reparto. Infatti a questo punto, scattò in loro quella molla interiore che poi fu giustamente e nobilmente chiamata «Resistenza». La semantica ci porta ad affermàre che con questa parola si designa quella reazione di popolo che, per germinazione spontanea, porta alla lotta contro l’invasore straniero o la tiranneggia. Ciò posto, possiamo solennemente affermare che l’avvicinarsi delle forze tedesche sulle posizioni tenute dalla la Compagnia del 331 Fanteria mise in moto e innescò un profondo sentimento di ribellione alla tracotanza dei tedeschi, ospiti in territorio italiano, decisi a comportarsi come in terra di conquista. ciò non poteva evidentemente essere tollerato e venne compreso anche dalle anime più semplici; e ciò indipendentemente dagli ordini ricevuti, peraltro ineseguibili, contraddittori e in aperto contrasto con le direttive del Governo legale. Fu unanimemente deciso di contendere con le armi il passo ai germanici.
Il Capitano Venturini considerò gli ordini come equivalenti ad una resa incondizionata in terra italiana, e ciò intaccava profondamente il senso dell’onore militare. Soggiunse l’ufficiale: «nel precipitare degli eventi politici, il senso della imprecisione e la mancanza di ordini precisi erano trapelati sino alla rude semplicità dei fanti, pur tuttavia le ultime incertezze e del proclama badogliano del giorno precedente indicavano la via da seguire per difendere in extremis l’onore e il prestigio della patria». Da questa valutazione interiore sorse la determinazione di opporsi al tedesco, se necessario fino all’estremo sacrificio, pur di non cedere alle pressanti richieste del Comandante tedesco, che pretendeva di continuare a fare la guerra in terra italiana.L’azione, pur nella sua unitarietà, si svolse in fasi distinte, l’una costituendo la premessa della successiva. Sino al mattino del 9 Settembre, ad appena 12 ore dalla diffusione dell’avvenuto armistizio, non erano avvenuti scontri a fuoco tra italiani e tedeschi. Questi ultimi, nel corso della notte, avevano iniziato a dar corso al Piano «AXE» – il cui ordine era pervenuto nelle mani del generale tedesco alle ore 22,30 dello stesso giorno 8 – varato, con ogni probabilità, sin dalla caduta del fascismo (25 luglio). Esso prevedeva l’immediato disarmo delle forze italiane. I primi obiettivi che i tedeschi valutarono con sapiente abilità, laddove i comandanti dimostrarono imperdonabili difetti valutabili e, ancor più, insipienza operativa, furono i due aeroporti di Maritza e Gadurrà, occupati o tenuti sotto controllo in modo da impedire qualsiasi utilizzazione delle infrastrutture. I tedeschi sentono già di poterla fare da padroni, essendosi resi conto della fragilità psicologica del nostro Comando, esitante nelle sue decisioni. Tale valutazione risulta dal diario storico del Comando della Divisione «Rhodos» che è stato possibile ora consultare.
la FASE
Ore 10.30 del 9 Settembre 1943
Ritenendo facile la conquista della città di Rodi, i tedeschi cominciano a muoversi scendendo dai tornanti di Arcangelo con mezzi blindati, fiancheggiati da reparti di fanteria, cioè con il classico dispositivo di combattimento dei mezzi meccano-corazzati. Accortisi di essere seguiti dai puntatori dei nostri pezzi, pronti ad aprire il fuoco, mandarono in funzione di avanguardia, intesa a saggiare le intenzioni degli italiani e a riconoscere da vicino la validità della loro sistemazione difensiva, 3 autoblindo, che si avvicinarono sino ad una diecina di metri dal posto di blocco. Al sottufficiale che era sceso dal mezzo, il Capitano Venturini irriconoscibile nel grado perchè si era sbarazzato della giubba, fece sapere – tramite un soldato alto-atesino alle proprie dipendenze – che «concedeva loro due minuti di tempo per la manovra di dietro-front. Non eseguendo quest’ordine sarebbero stati sottoposti al tiro dei cannoni.Constatato l’atteggiamento deciso che si leggeva in volto ai nostri soldati, il sottufficiale ritenne saggio ritornare rapidamente sui suoi passi.
2a FASE
Il Comando tedesco, evidentemente sorpreso dal fermo atteggiamento degli italiani, non del tutto persuaso, però, di quanto aveva riferito il sottufficiale, ritenne cosa migliore il poter parlamentare. Ed ecco avvicinarsi un’autovettura da ricognizione con a bordo un ufficiale scortato da 4 militari armati di mitra parabellum. Venivano tutti e cinque con atteggiamento pacifico, quasi con noncuranza. Al posto di blocco, l’ufficiale – un tenente medico – dice di doversi recare a Rodi per curare dei feriti. Al Cap. Venturini il motivo apparve sospetto, e più sospetta parve la consistenza della scorta, ritenuta eccessiva per il compito dell’ufficiale, a prescindere dal fatto che fino a quale momento non vi erano stati scontri a fuoco di alcun genere. Fu, quindi, dato l’ordine di perquisire la vettura ed ecco che da sotto i sedili e dal vano bagaglio saltarono fuori casse di munizioni e di bombe a mano più 4 machinen-pistolen.
3a FASE
Il Comandante tedesco, che aveva osservato lo svolgersi degli avvenimenti, a questo punto decise di ricorrere all’espediente di fare intervenire un maggiore e un tenente italiani, che su due motocarrozzette, condotte dai soldati tedeschi, con bandiera bianca, si presentarono al posto di blocco. Evidentemente si faceva assegnamento sull’opera di persuasione dell’ufficiale superiore perché non fosse frapposto ostacolo al passaggio dell’unità germanica. Alle suadenti parole del Maggiore italiano, il Cap. Venturini, non riconoscibile rispose che «l’ordine del Capitano comandante del caposaldo era uno solo: Nessuno doveva passare dalla Stretta della Zampica e che venivano loro concessi due minuti di tempo per fare dietro-front. In caso contrario sarebbero stati sottoposti al fuoco delle armi».
4a FASE
ore 16-19
E’ quella dello scontro.L’ossevatorio della sezione di artiglieria segnala lo spiegamento di una compagnia di fanteria, appoggiata ai fianchi da due autoblindo e 3 autocarrette, che cominciava a scendere dalle fronteggianti colline di Arcangelo. Prima che le loro armi automatiche giungessero a distanza efficace di tiro, il Cap. Venturini ordina di aprire il fuoco. Le due autoblinde furono centrate e avvolte dalle fiamme ad opera dei pezzi da 105/28, la stessa fine fecero le autocarrette, colpite dai cannoni C.C. A questa tempesta di fuoco si aggiunse l’incendio e l’esplosione di alcuni autocarri che seguivano trasportando munizioni, così che i fanti si riversarono sulla strada con le braccia alzate, sottoposti, come erano, al tiro della mitragliera da 20 m/m e delle mitragliatrici. Un plotone al comando del 5. Ten. Salvatore Fini ed un altro al comando dello stesso Capitano si lanciarono decisamente all’assalto sui fianchi del dispositivo nemico, catturando i ufficiale, 3 sottufficiali e 30 uomini di truppa, immediatamente disarmati ed avviati al Comando di Battaglione. Le armi e i materiali catturati vennero affastellati, cosparsi di benzina e dati al fuoco. Le perdite italiane assommarono a 10 feriti fra sottufficiali e soldati. Il falò visibile dal paese di san Benedetto, poco distante, allarmò gli abitanti: contadini e pescatori si affacciarono timorosi sulle creste delle colline circostanti per rendersi conto degli scoppi e degli incendi.Come in tutte le tragedie ad alta tensione vi è immancabilmente il lato grottesco. Dopo lo scontro, che costò vite umane, si ebbe un episodio che suscitò lo sdegno di tutti coloro che avevano preso parte all’azione, esponendosi fino al supremo sacrificio: ad un tratto ricompaiono, accompagnati da un ufficiale (5. Ten. Fiumara) i prigionieri che erano stati catturati nella seconda fase, con l’ordine verbale di «restituire loro le armi e riconsegnarli al Comando tedesco». Si ritiene opportuno lasciare la parola allo stesso Venturini che nel luglio 1944, al suo fortunoso rientro in Italia e successivo arruolamento nelle forze di liberazione, presentò una relazione ai suoi superiori: «prendendo spunto da quella situazione grottescamente creata dall’ignavia del Comando di battaglione, decisi a giocare una estrema carta: al fine di evitare ulteriori spargimenti di sangue e risolvere rapidamente la situazione, obbligai i prigionieri tedeschi ad avanzare a piedi e con le braccia sopra la nuca, verso lo schieramento tedesco; dietro ogni prigioniero avanzavano i nostri con le armi spianate. I tedeschi furono così obbligati a cessare il fuoco pur sempre rimanendo sotto il tirodelle nostre armi. Catturammo così due ufficiali, 7 sottufficiali e circa 60 uomini di truppa, tutti dotati di armi semiautomatiche e mitragliatrici leggere. Ridotti così i tedeschi all’impotenza e completamente disarmati, sotto debita scorta, furono tutti avviati non più al Comando di battaglione, ma a quello del 3310 Fanteria». I tedeschi sorpresi dall’inattesa reazione, ritirarono le loro residue sbandate truppe e iniziarono un concentramento di tiri di artiglieria sulle posizioni di M. Zampica. Al tiro dei pezzi si unì quello dei cannoni di bordo dei carri armati tigre da 32 t. che non erano ancora stati impiegati nel timore di perderli. L’uragano di fuoco, diretto in particolare alla eliminazione della sezione obici da 105/28, oltre a mettere fuori combattimento i pezzi stessi, costò la vita al 5. Ten. Locchi, che cadde riverso sul pezzo mentre si prodigava a dirigere il tiro per controbattere quello degli avversari. Alcuni serventi rimasero feriti. Poiché il fuoco nemico si faceva sempre più micidiale e intenso, fu chiesto, a mezzo radio;i’intervento di un gruppo di obici da 149/12, schierato a Monte Luca, nei pressi di Afando. La richiesta di fuoco, sebbene reiterata per due volte, non fu accolta nemmeno dopo l’invio di un ufficiale in grado di individuare gli obiettivi sulla carta. Soltanto verso sera si ebbe un rallentamento del fuoco, il che rese possibile mutare lo schieramento delle armi e la disposizione degli uomini per sottrarli al sicuro tiro di repressione che i tedeschi non avrebbero mancato di effettuare. Più tardi, verso le ore 22, si ripetè l’episodio serio dei prigionieri rimandati indietro, questa volta dal Comando del Reggimento, con l’ordine di «riarmarli e riconsegnarli al Comando tedesco». Li accompagnava il Capitano Giulio Rizzoli, comandante di una compagnia mitraglieri costiera, in rinforzo al Reggimento stesso. L’ufficiale, che aveva visto le ultime fiamme del rogo, fu accolto malamente dal collega Venturini, il quale non esitò a puntargli la pistola alla tempia, intimandogli di riportare i prigioieri al Comando che lo avevano mandato. A notte inoltrata subentrò uno strano silenzio, che probabilmente preludeva a qualche azione di forza o colpo di mano da parte tedesca: si potevano osservare dei movimenti e si intuì che si stava organizzando l’aggiramento sul fianco nord-ovest, allo scopo di tagliar fuori la stretta e di assaltare il caposaldo da tergo; solo così si sarebbe sbloccata, una volta per tutti, la strada per Rodi. Per fronteggiare un tale eventuale pericolo, occorreva disporre di forze di fanteria. Il Venturini, lasciato il comando della posizione al 5. Ten. Fini, che tanto brillantemente aveva operato in perfetta sintonia col suo capitano, si diresse al Comando di reggimento, il quale si era trasferito, con la bandiera, da Calithea al bivio di Stenà, tenuto dalla 12~ Compagnia; il valoroso capitano intendeva chiedere sostegno a quanto era stato fatto e ottenere precisi ordini sul da farsi in stretta aderenza alla situazione venutasi a creare.
Lungo il percorso, il Cap. Venturini si rese conto del generale smarrimento e della confusione che regnavano nelle nostre linee, ma notò con grande soddisfazione, che l’episodio di Passo Zampica «era sulla bocca e nei cuori di tutti i fanti del presentò ai loro occhi 3310 Fanteria, i quali speravano che ciò costituisse un valido esempio nella tragica irrisolutezza dell’ora» ed un luminoso esempio da seguire non per cedere l’isola di Rodi ai germanici. E’ ancora viva negli astanti la incredibile scena che si sbalorditi la sera del 9 al bivio di Stenà, allorché comparve all’improvviso una autovettura VW, con a bordo nella parte anteriore, due tremebondi ufficiali tedeschi (uno era al posto di guida) e dietro, con la faccia grave, a capo scoperto, pelato, si direbbe oggi «alla Yul Brinner», di cui in un certo senso, ricordava anche la conformazione somatica, il Cap. Venturini, pistole alla mano, aveva «scortato» da solo fino al Comando di Reggimento i due prigionieri, dopo aver percorso in piena notte un territorio infido. L’episodio destò allora nel cuore di tutti un manifesto senso di ammirazione per il coraggio dell’ufficiale italiano, non disgiunto da malcelato orgoglio per la dimostrazione chiara, data «coram populo» di una ferma volontà della decisione e di solida forza morale. Al Comando di Reggimento cercarono di convincere il Venturini a riarmare i prigionieri e a restituirli alle unità di provenienza, probabilmente nel timore che costituissero motivo di feroce rappresaglia in caso di resa. Scrive ancora l’ufficiale: «malgrado blandizie e minacce non vi riuscirono». Ma egli cominciò a rendersi conto che l’isola stava per essere ceduta senza essere stata difesa, proprio in contrasto con quanto esigevano l’onore militare nonché gli ordini del Governo legale. Venturini ritornò amareggiato al suo caposaldo, lungo il tragitto raccolse due paracadutisti inglesi, il Maggiore Lord Jellicoe, figlio dell’Ammiraglio protagonista della battaglia navale dello Jutland, nel 1916 ed il maggiore Dolbey, interprete, inviati dal Comandante in capo del medio Oriente, Gen. Wilson, per concordare la resistenza ai tedeschi, alla quale, però, non sarebbe venuto alcun aiuto da parte inglese. Li accompagnava il gigantesco sergente che il Cap. Venturini aveva chiamato al fuoco contm i tedesclu, non esitò a sparare con inusitata intensità contro i tre paracadutisti, senza per loro fortuna, colpirli. Solo il Magg. Dolbey si fratturò una gamba nel prendere terra. Rientrato al proprio reparto, sempre deciso alla difesa del passo Zampica, il Capitano si rese conto che ormai la situazione era condizionata da due precisi fattori: 1) il Comando tedesco si era rafforzato con l’afflusso di unità di fanteria e si preparava all’ aggiramento della posizione per prenderla alle spalle; 2) egli era stato praticamente abbandonato dai suoi superiori, i quali non vollero assumersi l’onore e l’onere di alimentare quella fiamma patriottica, l’unica veramente valida a bloccare al nemico la strada di Rodi. Egli decise, quindi, di sganciarsi per non dare ai tedeschi la possibilità di intrappolare i suoi uomini, con la conseguente – secondo la consolidata prassi teutonica (Cefalonia docet) – feroce rappresaglia. Pertanto, la compagnia, sotto la protezione di un plotone fucilieri in retroguardia, al comando del sempre attivo 5. Ten. Fini (a cui fu poi concessa la medaglia di bronzo al V. M.), ripiegò ordinatamente e raggiunse la località Rodino ove si era nel frattempo raccolto tutto il Reggimento, per una ulteriore quanto intentata difesa, a cordone attorno alla città di Rodi, operazione a cui si dovette rinunciare per la sopravvenuta resa. Tuttavia il Col. Manna ebbe modo di reimpiegare il mattino dell’ 11 lo stesso reparto a difesa dello schieramento di artiglieria di Islam Dagh. L’episodio sarà oggetto di altra apposita relazione, nel quadro della resistenza dei militari italiani all’estero.In sintesi le perdite inflitte al nemico nel fatto d’armi di Zampica ammontarono a:
- 7 morti;
- 16 feriti;
- 130 prigionieri;ù3 autoblindo e 15 automezzi distrutti;
- materiale vario, viveri e carburanti catturati.
Da parte italiana cadde sul campo dell’onore il s. Ten. artiglieria Idravio Locchi di Zara, comandante della sezione di artiglieria da 105/28 e 10 soldati rimasero feriti. Fra i «riconoscimenti» il Generale Messina ha voluto ricordare anche la mia modesta persona facendo riferimento al mio volume «ITALIANI IN EGEO» in cui avevo scntto:
«Nel Settore Galithea, presidiato dal 331.° Fanteria e che comprendeva il tratto tra Afando e Arcangelo, fra i due colli Plaia e Zampica, s’interna una profonda gola, formando una vistosa strozzatura nel cui fondo corre la strada longitudinale dell’isola e quindi di notevole importanza tattica. A difesa di questo passo la notte del 9 Settembre si schierò una compagnia del 3310 Fanteria al comando del Capitano Mariano Venturini. Una colonna tedesca che cercava nel pomeriggio di aprirsi un varco verso Rodi, ebbe perdite gravissime. Nei giorni seguenti alla resa (11 Settembre) ebbi modo di conoscere personalmente il Cap. Venturini, in località Tomba Tolomei nei pressi di Rodi, mentre cercava di radunare soldati sbandati per dare battaglia ai tedeschi… io stesso ed altri colleghi dell’Aeronautica, che eravamo concentrati sull’altura a ridosso di Monte Smith, prendemmo contatto con lui per metterci ai suoi ordini».
Il Capitano Mariano Venturini, oggi Generale dell’Esercito a riposo vive a Roma. Dopo la resa attraverso difficili vicissitudini riuscì a raggiungere l’Italia ad arruolarsi nel Corpo Volontari della Libertà. Anche se in seguito concessero a lui la Medaglia d’Argento al V. M. forse per lavarsi la coscienza, le Autorità Militari ed il processo storico ha spesso sottaciuto sull’ardore ditale indomito ufficiale e delle sue azioni di guerra. lo stesso per i suoi valorosi e generosi uomini della fa Compagnia del 331° Reggimento Fanteria.