di Luca Dogliani
8 Settembre 1943, ore 20.
Riuniti in mensa, ascoltavamo sull’attenti il solito bollettino di guerra che da un po’ non portava che amarezze; la voce di Badoglio, con il suo marcato accento piemontese, annunciava al mondo che l’Italia aveva chiesto l’armistizio.
Restammo tutti allibiti: a migliaia di chilometri dalla Patria, nessuno si rendeva conto di quello che stava succedendo e ognuno si cullava nella vana illusione che le cose potessero andare per un verso migliore con un armistizio e con ordini precisi e decisi.
Alcuni ufficiali tedeschi, nostri ospiti alla mensa, ci salutarono militarmente ed uscirono.
La tragedia di Rodi stava per iniziare.
Nessun ordine venne dato, nessuna disposizione presa; eravamo come annichiliti, anche se non completamente sorpresi. Da tempo, infatti, immaginavamo che la guerra fosse persa. L’impreparazione e la leggerezza con le quali eravamo stati scaraventati in un così grave conflitto, non potevano che dare i loro malefici frutti a breve scadenza.
Cosi stava dunque avvenendo: noi comunque eravamo soldati ed avevamo l’obbligo di fare il nostro dovere, costasse quel che costasse.
Il comunicato di Badoglio ci mise di fronte alla cruda realtà.
L’indifferenza dei nostri capi aveva permesso che nel tranquillo possedimento, lontano da ogni fronte di guerra, non minacciato, giungesse, poco prima dell’8 settembre, una divisione corazzata tedesca, mandata colà dalla previdenza germanica ed accettata senza alcuna ragione dall’imprevidenza nostra.
Infatti non si aveva nessuna necessità di tale divisione composta di circa 6.000 uomini, munita di carri armati “Supertigre”; da anni le isole erano presidiate da 35.000 soldati italiani con armi e munizioni in abbondanza, con tre campi di aviazione, una base navale e con pochissime azioni belliche all’attivo; di conseguenza il potenziale militare era quasi intatto.
Giunti invece i Tedeschi con la loro divisione, la nostra situazione divenne critica. Infatti, ci si posero queste domande inquietanti: come regolarsi? Che fare? Con le armi ed i mezzi a disposizione non sarebbe stato difficile risolvere la questione a nostro favore, in poche ore, se avessimo avuto ordini precisi e comandanti all’altezza della situazione. Purtroppo non fu così, soprattutto a causa del Governatore che non ebbe l’energia necessaria.
I soldati italiani da parte loro, si sentivano profondamente stanchi di quella vita protratta per anni sempre nello stesso posto, senza il conforto di qualche licenza, mal nutriti e mal vestiti. Essi non volevano più saperne di combattere e dicevano che per loro la guerra era finita e presto sarebbero tornati a casa.
Come si vede, il disarmo morale prodotto da un armistizio conosciuto per via radiofonica, dava i suoi frutti.
I Comandanti Generali si trinceravano dietro l’obbedienza militare quindi stavano ad aspettare gli ordini del Governatore Ammiraglio, che era ancora più indeciso di loro.
Nel “Castello”, sede del Comando Generale, egli aveva messo a disposizione, due camere, l’una per una missione militare inglese e l’altra per alcuni ufficiali tedeschi.
La prima, giunta da Cipro e paracadutata la notte del 9, era composta dal Maggiore Jellicoe – nipote dell’anonimo Ammiraglio comandante la flotta inglese allo Jutland – del Maggiore Dolbey e di un Sergente maggiore radiotelegrafista. La seconda era costituita da ufficiali tedeschi inviati dal loro comandante il generale Kleeman.
Così il nostro Comandante in capo andava da una stanza all’altra, ascoltando ora una ora l’altra missione, senza riuscire a risolvere la grottesca situazione.
Un suo ordine preciso e deciso avrebbe risparmiato lutti, dolori e atrocità, nonché la sua vita stessa: infatti, dopo la resa, ordinata con la promessa che egli sarebbe rimasto a Rodi nelle funzioni di Governatore Civile, fu invece imprigionato, portato a Parma, processato, condannato a morte ed infine fucilato.
La notte dall’8 al 9 fu tremenda: la caserma si era trasformata in una vera e propria bolgia dantesca. Tutti i soldati andavano gridando: “La guerra è finita, si torna a casa!”.
Entrando nella camerata del mio reparto udii un soldato che, con la gavetta ancora piena di rancio, stava urlando che non avrebbe ubbidito a nessuno; con un pugno feci capovolgere la gavetta il cui contenuto gli schizzò in faccia. Gridando che la guerra per noi iniziava solamente allora, tirai fuori la pistola e minacciai di sparare a chiunque trasgredisse i miei ordini e non si comportasse da soldato.
Pur essendo un semplice tenente, comprendevo che la tragicità del momento rendeva necessarie unione e decisione al fine di giungere alla salvezza di tutti; dopo aver chiarito questa inconfutabile verità incitai i soldati all’obbedienza, li misi in stato d’allarme, pronti con le armi in pugno, in attesa di altri comandi.
Ristabilita la calma, tutti riconobbero la validità delle mie affermazioni e finirono con lo stringersi intorno a me.
La notte passò senza che nessun ordine venisse a sollevarci dall’incertezza. Trascorremmo, insonni, ore ed ore vicini alla radio che ripeteva in tutte le lingue la notizia dell’armistizio chiesto dall’Italia.
Il giorno 9 fu invece denso di avvenimenti. La mia compagnia mitraglieri partì verso Rodino, località amena distante pochi chilometri da Rodi e ricercato luogo di villeggiatura nei bei tempi di pace. Là vi era installata una postazione tedesca antiaerea ed anticarro da 88 mm. Su una quota di 40 metri che sovrastava l’intera località; il mio compito era di ingabbiare detta posizione.
Tutte le artiglierie italiane vennero messe in postazione, onde battere le tre uniche strade di accesso alla città di Rodi, sbarrando così la via ad ogni carro armato tedesco che avesse tentato di giungere a tiro dell’abitato.
I Tedeschi erano inferociti a causa di quello che chiamavano “Il vile tradimento”, dimenticando che nel ’40, in circostanze analoghe, avevano lodato i Belgi e gli Olandesi quando avevano chiesto l’armistizio per evitare ulteriori ed inutili spargimenti di sangue.
Al contrario di noi, inoltre, avevano già da tempo ordini precisi e chiari; sapevano quello che volevano e soprattutto con chi trattavano.
La sera dell’8 settembre a Campochiaro, sede del comando della divisione “Regina”, il Generale S., apprese dalla radio la notizia dell’armistizio, mentre era a tavola: non diede alcun ordine e continuò tranquillamente a mangiare, in compagnia di tutto lo Stato Maggiore, come se nulla fosse accaduto. Mentre assolveva in tal modo ai suoi “Doveri Militari”, gli venne annunciato l’arrivo di un Capitano tedesco che desiderava conferire con lui; egli lo fece entrare immediatamente ma ebbe una sgradita sorpresa.
Infatti costui, di ben altra tempra, sfoderò la pistola e, puntandogliela alla nuca, lo minacciò di fargli saltare le cervella se non avesse ordinato la resa ai suoi reparti. Credo che questo ardimentoso generale comprendesse in quel momento che forse sarebbe stato meglio rinunciare alle tagliatelle; comunque fece in tutta fretta ciò che gli era stato ordinato.
Nella stessa notte, l’aeroporto di Maritza, affidato al Colonnello F., venne occupato da un Capitano al comando di un’autoblinda. Questo aeroporto, armatissimo con aerei da caccia e da bombardamento, con piloti ed avieri a disposizione, fu occupato senza colpo ferire.
In seguito, ritrovai ricoverato in ospedale, il suddetto Colonnello chi già conoscevo; cosi ebbi modo di apprendere dalla sua viva voce i seguenti particolari:
Verso le ore 22 della notte dall’8 al 9 si presentò all’ingresso del l’aeroporto una autoblinda tedesca con alcuni militari al comando di un capitano, che chiese all’ufficiale di picchetto di poter parlare al Comandante. Costui, con una ingenuità che rasentava l’incoscienza, si presentò al tedesco. Da notare che egli aveva nella sua camera un centralino telefonico che lo metteva in grado di comunicare con tutti i suoi reparti, con le batterie antiaeree dislocate sulle alture circonvicine e con la squadra anti-comando, creata dopo un’azione dei medesimi nel luglio del ’43, azione che aveva condotto alla distruzione di alcuni apparecchi da caccia. Avrebbe dovuto quindi mettere in allarme gli uomini ai suoi ordini o, quarto meno, far disarmare il tedesco e farlo scortare al suo comando, tanto più che l’Ufficiale tedesco era suo inferiore di grado e sarebbe stato quindi logico che andasse lui dal suo superiore e non viceversa.
Invece fu il Colonnello ad andare dal Capitano; appena si incontrarono, il tedesco disse che aveva comunicazioni importanti e ancora una volta il Colonnello F., con una ingenuità molto vicina all’idiozia, accondiscese, ritirandosi con lui nella stanza dell’ufficiale di picchetto.
Quando furono soli, il tedesco sfoderò la pistola, e, puntandola alla tempia dell’ingenuo Colonnello, gli intimò di ordinare la resa a tutti i suoi reparti, comprese le batterie, dandogli due minuti per decidere.
Il Colonnello chiese di telefonare al Generale B. del comando Aeronautico di Rodi; il tedesco acconsentì, e, dallo stesso posto di guardia, venne chiamato il suddetto Generale al quale fu spiegata la situazione e chiesti ordini. Il Generale tu categorico: “Bisogna resistere senza accettare compromessi”.
“Ma il tedesco mi ammazza! Ho la pistola puntata alla tempia!” rispose concitato il Colonnello – .
“Allora perché‚ mi telefona chiedendomi ordini, se ha già deciso per la resa?” – ribatté il Generale prima di chiudere la comunicazione.
In tal modo un aeroporto munitissimo ed in piena efficienza, la cui mancanza risultò poi determinate nei giorni che seguirono, fu consegnato senza colpo ferire ai tedeschi da un Comandante certamente non all’altezza del suo compito.
In modo simile caddero gli altri aeroporti dell’isola, cosicché‚ i tedeschi si trovarono immediatamente in una posizione privilegiata, con carri armati a noi sconosciuti e uniti al centro dell’isola in unica massa di manovra, avvantaggiati nei confronti degli Italiani disposti invece in posizione di difesa costiera.
La giornata del 9 settembre passò nella vana attesa dell’arrivo degli Inglesi, mentre i Tedeschi consolidavano le loro posizioni; comunque prima di arrivare ad una risoluzione definitiva essi dovevano occupare ancora Rodi città assolutamente imprendibile.
Tre sole erano le vie che dall’interno portavano alla città: una costiera dal lato Nord-Est, direzione Trianda-Rodi, battuta dalle batterie della marina situate su monte Smith che dominavano sia la strada che la città; l’altra dal lato Sud-Ovest, direzione Calitea-Rodi, Che si snodava in pianura e la terza, centrale, che passando da Rodino, portava al cuore di Rodi.
Le prime due erano inaccessibili, godendo rispettivamente della protezione delle batterie della marina e dell’artiglieria. Vero è che la strada Calite-Rodi era favorevole alle manovre dei carri armati anche perché dominata dalla postazione tedesca da 88 situata a quota 40 nella zona di Rodino, a cavallo di un costone, ma è altrettanto vero che era battuta dall’artiglieria italiana affluita in città dall’interno, non avendo obbedito agli ordini di resa del Generale S.
L’unica in grado di permettere un’azione d’invasione verso Rodi, era quindi la via centrale, collinosa e tortuosa, che rendeva più facile la mimetizzazione; il solo punto arduo da superare era la curva di Rodino. Lì la strada si stringeva con un angolo strettissimo in discesa, imboccava un ponticello su un piccolo vallone e risaliva scavalcando con una rapida curva un monticello, prima di immettersi in un rettifilo di un paio di chilometri, che portava a Rodi.
Questa famosa curva divenne poi teatro di duri scontri e fu chiave di volta della situazione strategica della battaglia di Rodi.
Come si è detto, a cavallo di un costone dominante questa strada, era la postazione tedesca, armata di due batterie da 88 mm. E con parecchie mitragliere da 20 mm. Difesa da circa duecento Tedeschi al comando di un Tenente Colonnello.
La prima operazione era quindi quella di mettere fuori combattimento questa postazione anche se per il momento mancava l’ordine d’attaccare, essendosi il Generale C. limitato a predisporre tutt’intorno le truppe a sua disposizione compreso il mio reparto mitraglieri, allo scopo di prendere una eventuale azione offensiva e di difendere l’accesso alla città di Rodi.
Fu così che, nella notte del 9, presi possesso della quota 46 la quale, separata da una piccola valle, distava da quota 40, occupata dai Tedeschi, pochi metri in linea d’aria. Proprio al fatto di essere in quota superiore e a distanza ravvicinata, devo la mia salvezza e quella del mio reparto, come si vedrà in seguito.
Nel frattempo gli Inglesi riuscirono, con la loro insipienza, a combinare un sacco di guai. La missione era al “Castello” sempre in attesa di dare qualche buona nuova all’Ammiraglio; ma senza alcun risultato positivo. Il Generale Wilson, capo delle forze alleate del Medio Oriente, aveva invece avuto la brillante idea, di inviare quella notte, come unico aiuto, un aereo che inondò la città e le postazioni italiane di manifestini, decisamente inadatti alla situazione ed allo stato d’animo dei soldati, nei quali si leggeva:
“ITALIANI, L’ITALIA SI È INGINOCCHIATA AI NOSTRI PIEDI, NOI GENERALI WILSON (e qui vi era l’elencazione di tutti i suoi ordini cavallereschi) COMANDANTE IN CAPO DELLE FORZE DEL MEDIO ORIENTE ECC. ECC., ORDINIAMO:
1° Tutte le navi da guerra italiane si portino immediatamente ad Alessandria e si consegnino al nostro Ammiragliato:
2° Tutti gli aerei italiani si rechino immediatamente a Cipro;
3° Tutte le truppe di terra prendano immediatamente i tedeschi prigionieri, si radunino in rodi e attendano nostre istruzioni.
Si può ben immaginare quale effetto deprimente simile messaggio, umanamente e psicologicamente errato, abbia avuto sul morale dei soldati.
Quella notte ero riuscito, con sforzi inauditi, a portare in posizione i soldati che obbedivano di malavoglia e avevo fatto scavare un rudimentale camminamento sulla quota assegnatami; proprio in quel momento, quando forse avremmo dovuto combattere duramente, arrivò il suddetto inopportuno messaggio.
Si trattava di una vera e propria assurdità, sia per la forma, sia per il contenuto; una divisione tedesca corazzata, che, oltretutto, aveva spirito diverso del nostro, per essere messa fuori combattimento, doveva essere affrontata con tutti i mezzi e quindi, prima di dare ordini di partenza ad aerei e navi, bisognava almeno avere i tedeschi nelle nostre mani. E poi quella frase: “L’Italia è inginocchiata ai nostri piedi”, sarebbe stato meglio lasciarla da parte.
Gli Inglesi avrebbero dovuto capire che, volere o no, in tanti mesi di vita comune con i Tedeschi, che a Rodi dipendevano esclusivamente dal comando italiano, si era creato un clima di cameratismo, favorito dal fatto che nessuno di noi sapeva ciò che accadeva in Germania o su altri fronti.
Bisogna inoltre considerare che molti non erano propensi all’armistizio condotto e firmato in quella maniera bestiale; in base a tutte queste considerazioni, la volontà di combattere non poteva che calare sempre più. I soldati si ponevano questa logica domando: “Se ci siamo inginocchiati ai loro piedi, vengano a prenderseli i Tedeschi, perché mai dobbiamo farlo noi rischiando la pelle?”
Insomma, la notte del 9 è stata la più tremenda che abbia mai passato in vita mia. Solamente con la pistola in pugno riuscii a farmi obbedire e a far scavare quel rudimentale camminamento che ci dava riparo, cosa che all’indomani si dimostrò non solo utile ma essenziale: nessuno dei miei uomini venne ferito o messo fuori combattimento ed ebbi la soddisfazione di avere da parte loro un ringraziamento per ciò che avevo fatto.
Venne infine il mattino del giorno 10 sempre senza nessun ordine; ben due missioni di ufficiali tedeschi con gli occhi bendati e bandiera bianca passarono in macchina guidati da un ufficiale italiano, diretti dal Governatore per trattare la loro resa. In realtà chiedevano una tregua, sempre concessa, ciò che permetteva loro di riorganizzarsi, in quanto, tentando lo sfondamento sulla direttrice Trianda-Rodi, erano rimasti bloccati dall’artiglieria della marina che distruggeva sistematicamente ogni carro armato che si presentava sulla strada costiera. Così non si comprendeva come mai il Governatore concedesse tregue, dato che i combattimenti erano ormai iniziati e volgevano a nostro favore.
Nel primo pomeriggio il Generale C., Comandante del settore, mi invio a parlamentare col comandante della posizione da 88: dovevo offrirgli una resa onorevole, in base alla quale tutte le armi dovevano essere lasciate sul posto e tutti i soldati accompagnati nella caserma “Regina” a Rodi, da dove sarebbero stati portati a Creta che, si diceva, i Tedeschi avessero scelto come base di raduno delle loro truppe sparse nelle varie isole.
Il Colonnello tedesco mi venne incontro fino ai reticolati che circondavano la sua posizione, armato di machine-pistole mentre una mitragliera sa 20 mm. Mi teneva sotto tiro; sentito quello che avevo da dirgli, mi rispose testualmente: “Ho avuto ordine di difendere questa postazione da chiunque; nessuno venga quindi avanti; comunque non aprirò per primo il fuoco, anche se ho intenzione di lasciare questa postazione solo morto: state in guardia!”
Messo di fronte ad una affermazione così perentoria, non mi restava altro da fare che scendere dalla quota e riferire immediatamente al comando: erano esattamente le ore 10 del giorno 10.
La giornata passava lentamente; noi osservavamo dalla nostra postazione i Tedeschi che febbrilmente mettevano mine leggere – quelle che esplodono sotto il peso di un corpo – nel terreno circostante la postazione ed infittivano i reticolati.
Venne così il pomeriggio di sangue: erano le sedici. Un aereo tedesco sorvolò la posizione da 88 più volte senza essere disturbato dalla nostra antiaerea dato che gli ordini erano di sparare solo in caso di provocazione; ad un tratto, l’aereo lanciò un lungo tubo metallico scintillante al sole d’autunno, in questo contenitore vi era, come sapemmo dopo, un messaggio per il comandante tedesco. Nello stesso tempo iniziò con le armi di bordo un mitragliamento sulle mie posizioni e su quelle dei miei colleghi, ferendo sette uomini ed uccidendone uno; anche la postazione tedesca aprì un fuoco d’inferno con tutte le armi disponibili: evidentemente il messaggio paracadutato conteneva istruzioni in tal senso. Le nostre batterie fecero altrettanto, così mi ritrovai in un uragano di fuoco; una mitragliera tedesca mi sparò in continuazione contro senza però riuscire a colpirmi, data la vicinanza eccessiva in relazione al suo tiro troppo teso nonché per la differenza di quota a mio favore.
I miei uomini erano al riparo nel camminamento ed io mi ero posto dietro la mitragliatrice che dominava la quota tedesca; vedevo nettamente, come in uno specchio, i trancianti dei proiettili da 20 mm. Riflettersi sugli elmetti. Il pericolo maggiore lo correvano invece dalle nostre artiglierie che, data la vicinanza tra le due posizioni, potevano colpirci per sbaglio. Infatti, un colpo di un pezzo della batteria a lunga gittata della marina situato a monte Smith, cadde qualche metro sotto il costone da me occupato, causando un frastuono incredibile e quasi seppellendoci sotto un cumulo di terriccio. Ma non sparavano solamente le artiglierie da batteria, ma anche i mortai da 81 in dotazione alla fanteria e fu proprio un colpo di questi, per un pelo, non mise fine alla mia avventura; esso cadde tra me, coricato dietro la mitragliatrice, e la culatta della medesima; rimase lì, conficcato nel terreno, senza esplodere e a qualche centimetro dalla mia testa; me lo vidi così fino a combattimento terminato.
Erano ormai trascorsi quaranta minuti da quando il fuoco era iniziato, allorché un colpo da 185 della marina colpì in pieno la centrale di tiro della batteria tedesca in cui si trovava ovviamente il Colonnello Comandante che saltò in aria. Ricordo chiaramente il suo corpo smembrato in mezzo ai serventi ed ai goniometri della centrale. Accadde così quello che il Colonnello mi aveva detto durante il nostro breve colloquio: “Lascerò questa postazione solo da morto”.
Il Capitano tedesco, comandante in seconda, capì che ogni resistenza sarebbe stata vana ed inalberò la bandiera bianca in segno di resa. Forse sono uno dei pochi ufficiali italiani che abbia visto in quel triste periodo i Tedeschi arrendersi e che abbia fatto prigionieri.
Anche il nostro fuoco cessò; i Tedeschi uscirono dai loro ripari e, seguendo il loro comandante, si apprestarono a scendere con le mani alzate il breve sentiero che li avrebbe portati sulla strada per Rodino. All’improvviso, un sottufficiale, certamente un fanatico, non volle accettare la resa ed incominciò a sparare con una mitraglietta contro i suoi stessi camerati; qualcuno cadde mentre gli altri si buttarono a terra e, carponi, riuscirono a raggiungere incolumi la strada normale e a consegnarsi prigionieri.
Quel disgraziato sottufficiale ci arrecò più danni da solo che non tutto il bombardamento.
Infatti, a fuoco cessato, si era dato il via alla circolazione stradale; innumerevoli camions italiani che, come si è detto, venivano dall’interno diretti a Rodi e si erano fermati all’inizio dell’azione dietro la mia quota che li proteggeva dal fuoco nemico, infilarono la strada, che dopo una serpentina in discesa, attraversava il greto di un torrente generalmente asciutto su un piccolo ponte in muratura, per risalire poi di quota con una stretta curva ed immettersi sulla direttiva per Rodi.
In questi pochi metri, molti persero la vita a causa di un solo maledetto tedesco.
Approfittando del fatto che con la sua “machine-pistole” poteva spostarsi in continuazione sfuggendo al fuoco delle mie armi, sparava su ogni camion che, ignaro , iniziava la discesa per immettersi sul ponticello; colpito l’autista, il primo automezzo precipitò nel torrente e così gli altri che lo seguivano. Si continuò così per parecchi minuti, nonostante si fosse cercato di fermare l’afflusso dei mezzi sulla strada, che cessò solamente quando il ponte, il greto, e la strada stessa furono pieni di camions capovolti.
Il Tedesco era imprendibile, favorito anche dall’approssimarsi dell’oscurità, Così cominciai a pensare di salire io stesso sulla quota 40; la cosa si presentava difficile; avrei dovuto scendere, risalire, aprire i reticolati, passare in un terreno minato, ma d’altra parte non potevamo essere tenuti a bada per tutta la notte da un uomo solo che, oltretutto, bloccava anche le comunicazioni per Rodi.
Stavo per decidere la sortita, quando vidi distintamente le fiammelle del mitra del Tedesco spuntare alla mia sinistra. Evidentemente quel disgraziato era riuscito a spostarsi dalla sua quota. Ma se il buio lo aveva protetto nello spostamento, lo aveva anche smascherato e le fiammelle che uscivano dal suo mitra lo rendevano ormai individuabile. Così lla sua prima mitragliata, potei rispondergli e lo colpii; egli venne poi finito a colpi di pugnale da alcuni miei soldati inferociti
Erano ormai le 20: il combattimento accanito era durato due ore.
A quel punto ebbi l’ordine di salire sulla postazione per il rastrellamento.
Stavo cercando un varco nei reticolati insieme ai miei uomini, quando un soldato tedesco, visto morire il suo sottufficiale, si decise ad uscire dal suo nascondiglio con le mani alzate, gridando: “Bono italiano, non sparare! Guerra finita, Guerra finita!”
Gli ordinai di scendere dove lui sapeva esserci un passaggio nel filo spinato, e, presolo, lo consegnai a due soldati affinché lo portassero al comando; io passai attraverso quel varco e iniziai a salire il pendio per rastrellare la postazione.
I miei uomini erano però restii a seguirmi; la guerra era terminata e non volevano correre rischi inutili passando in un terreno minato. Naturalmente io seguivo il percorso che avevo visto fare dal tedesco, ma non potevamo andare tutti in fila indiana perché la zona doveva essere rastrellata a ventaglio.
Abbandonai per primo il sentiero per convincere i miei uomini che non vi era pericolo e mi misi a gettare bombe a mano che, pur essendo del tipo O.T.O., cioè bombette “umanitarie” di ben scarsa efficienza, avevano la possibilità di far scoppiare le mine. Con questo sistema, creai una zona più o meno sicura, attraverso la quale potemmo raggiungere la cima senza ulteriori difficoltà.
Ci apparve uno spettacolo terribile: uomini spappolati, cannoni distrutti, materiale buttato da ogni parte ed anche alcuni feriti, che feci portare subito nella nostra infermeria.
Solamente il magazzino viveri-vestiario e la casetta del colonnello erano intatti. Ciò era dovuto alla loro ubicazione veramente geniale: invece di essere in superficie, erano costruiti in enormi buche coperte da reti e da teli mimetici che li rendevano invisibili.
I miei uomini affamati volevano dare l’assalto al magazzino dei viveri ma io non lo permisi. Entrai invece nella casa del Colonnello dove trovai un fucile da caccia che requisii in quanto arma da fuoco; lasciai invece gli stivali di cuoio, delle radio, dei pellicciotti e delle giacche che si trovavano in loco.
“Nessuno tocchi nulla!” urlai quando vidi uno dei miei che si era appropriato di un paio di stivali. “Non fate gli sciacalli, la guerra è finita”!. Ma costui, un altoatesino, mi gridò con arroganza:
“Signor Tenente, questi stivali li ho presi e me li tengo!”
A queste parole non riuscii a trattenermi e gli sparai un colpo di pistola tra i piedi urlando:
“Nessuno tocchi niente!”
Ottenuto ciò che volevo, mi allontanai senza immaginare che questo gesto mi avrebbe salvato, come vedremo in seguito, la vita.
Lasciata la postazione, dopo aver constatato che non vi si trovava più alcun tedesco vivo, scesi dal lato Nord dove un sentiero conduceva ad una caverna scavata sotto quota 40.
Lì vi era il centro di tutte le comunicazioni radio dell’isola e il collegamento diretto con il comando superiore in Italia.
Questo dispositivo, realizzato con grande maestria da un tecnico di alto valore, il Capo di 1a Classe Giovagnoli della Marina che io conoscevo molto bene, era il centro nevralgico delle comunicazioni senza il quale era impossibile ogni ordine o movimento di truppe.
Esso era presieduto da un gruppo di marinai al comando del suddetto capo. Egli vedendomi discendere con i miei uomini, mi chiese, dall’imboccatura della caverna, se tutto era finito.
Gli risposi affermativamente aggiungendo che nessun pericolo ci veniva ormai dai Tedeschi e gli consegnai il fucile che avevo requisito sulla postazione pregandolo di tenerlo nella sua armeria.
Sentendo che non vi era alcun pericolo, i marinai si precipitarono verso la quota con l’intenzione di fare razzia di viveri. Cosi fecero ma purtroppo, la maggior parte di loro pagò caro questo gesto. Infatti vedremo che costerà loro la vita.
Rientrammo al comando di Rodino dove feci rapporto al Gen. Calzini, restando poi in allarme per tutta la notte; giungevano le notizie più disparate tra le quali quella di combattimenti all’interno dell’isola.
Il giorno 11, nella strada ormai sgombrata dai camion danneggiati dal fanatico sottufficiale, vedemmo avanzare un vettura con due ufficiali tedeschi bendati e con bandiera bianca che, scortati da un ufficiale italiano, si avviavano a Rodi per parlamentare con il Governatore. Correva la notizia che offrivano la resa e tutti si era euforici, si gridava, si cantava., ma quale amara sorpresa ci attendeva!
Ricevemmo l’ordine di rientrate in Rodi alla caserma “Regina”; compimmo i pochi chilometri che ci separavano dalla città tra due ali di civili greci che applaudivano e inneggiavano alla fine della guerra.
In caserma trovai tutti i Tedeschi catturati seduti nel cortile, e devo dire che mai ne ho visti di più contenti. Restai con la machine-pistole che avevo preso al tedesco che tanto danno ci aveva procurato, in attesa di ulteriori ordini; ormai la situazione mi sembrava perfettamente chiarita.
La guerra poteva dirsi finita: la missione tedesca trattava la resa, e, da notizie certe, gli Inglesi stavano sbarcando a Coo ed a Lero dove non esisteva alcun presidio germanico e dunque sarebbero giunti a Rodi in breve tempo.
Invece, giunse incredibile la notizia che il nostro Governatore aveva ordinato la resa di tutti noi! Erano le 15 dell’11 settembre.
Era una cosa veramente inaudita ed assurda: avevamo quasi tutta l’isola nelle nostre mani, Rodi era in nostro potere – e qui esistevano tutti i magazzini di vettovagliamento – , avevamo circa 500 prigionieri in caserma e dovevamo arrenderci?
Si disse poi, con una certa malignità, che il nostro Governatore, al vedere la nuova missione tedesca, avesse voluto parlare per primo.
Il nostro capo, nonostante le assicurazioni degli Inglesi circa l’arrivo di aerei, era stato convinto dalla missione germanica di stanza al Castello sin dalla sera dell’8 settembre ad ordinare la resa in cambio della carica di Governatore Civile di Rodi e dell’impegno di rimpatrio per tutti i soldati italiani che lo avessero desiderato. E certo che bisognava essere molto ingenui per credere a simili proposte, oltre tutto inattuabili!
Come era infatti possibile rimpatriare una massa cosi ingente di soldati? E con quali mezzi?
Così, il nostro Comandante, parlando per primo e dicendo di essere disposto ad ordinare la resa, sorprese non poco i Tedeschi venuti ad offrire la loro resa. Tutta questa grottesca situazione ha degli aspetti che si possono definire comici, ma che furono drammatici perché‚ costarono la vita a 15.000 italiani.
Nell’isola di Rodi si trovavano molti civili – 6.000 italiani circa – con le loro ormai ben avviate attività e 5.000 ebrei di origine iberica, profughi nell’isola sin dal 1500 quando in Spagna vi erano state le persecuzioni contro la loro razza.
Essi si erano sistemati a Rodi, creando banche, istituti commerciali, molte altre attività lavorative; dopo tanti secoli parlavano ancora tra loro lo spagnolo. Inoltre vi erano 5.000 turchi e 25.000 greci.
Tutto ciò non era bastato al Governatore per convincersi della necessità del combattimento ad oltranza. Non solo, ma si assumeva una grave responsabilità abbandonando all’ira razzista dei Tedeschi tanti innocenti.
Comunque la realtà era incontrovertibile: la resa era italiana.
Sembra che il Governatore, oltre che dalle suddette proposte, fosse stato convinto dalla minaccia di bombardamenti con gli Stukas, uno solo ne arrivò, colpendo, con l’unica bomba sganciata sulla quota da noi poco prima conquistata, l’ingresso della caverna della marina e ferendo il capo Giovagnoli che rimase sepolto dalle macerie della sua casetta distrutta. In seguito ci trovammo compagni di sventura all’ospedale militare.
Un ufficiale tedesco entrò dunque in caserma e parlò ai suoi soldati nostri prigionieri. Si assistette allora ad un fatto strabiliante, e cioè al passaggio dei soldati italiani dallo stato di custodi a quello di prigionieri, costretti a lasciarsi disarmare dai Tedeschi che poco prima essi stessi avevano disarmato.
Un sottufficiale mi si avvicinò minacciosamente ed indicando il mitra che tenevo, mi disse:
“Diese ist eine deutsche Waffe”.
A questa ingiunzione di consegnargli immediatamente l’arma, mi adirai e gli risposi:
“Vieni a prenderla se hai coraggio”.
Di fronte alla mia decisa reazione, il Tedesco preferì desistere.
Cosi inforcai la bicicletta e, sempre con il mitra a tracolla, mi diressi verso la città.
Mentre transitavo per Mandracchio, la passeggiata lungo il porto, vidi indescrivibili scene di panico; soldati di tutte le armi, ormai sbandati, che prendevano d’assalto i motovelieri in rada, barche e barchette di ogni dimensione cariche di gente che si dirigevano verso l’uscita del porto e la Turchia la cui costa si intravedeva da Rodi.
Un mio collega, già a bordo di un motoveliero carico all’inverosimile che stava muovendo verso l’uscita del porto, mi gridò di fare presto: avrebbe fermato il mezzo per darmi la possibilità di salire.
Feci male a non accettare il suo invito, ma la probabilità di finire la guerra in un campo di concentramento turco non mi sorrideva troppo e preferii tenermi la libertà d’azione ed attendere.