Le grandi tragedie dell'Egeo
Il piroscafo "Gaetano Donizetti"
Il piroscafo “Gaetano Donizetti” di 3428 tonnellate di stazza, già della Compagnia di navigazione “Tirrenia” e sequestrato dalla Kriegsmarine all’armistizio, giunse a Rodi il 19 settembre 1943 portando cannoni, munizioni e truppe di rincalzo per il Generale Kleeman. Nell’isola, la Divisione corazzata “Rhodos” aveva già vinto la sua battaglia secondo un piano sicuramente studiato da tempo e messo in atto, dopo lo sconcerto iniziale, con metodi e movimenti nei quali l’alta scuola di guerra aveva lasciato spazio al ricatto e la visione strategica s’era appoggiata a furbizie di basso conio. Crollati i vertici italiani, avvenuta la resa, i marinai e gli artiglieri erano scesi dalle batterie, i fanti erano stati costretti ad uscire da postazioni spesso duramente difese, gli avieri – presi di mira nei loro campi aperti all’offesa dei panzer e dei bombardieri – non avevano potuto che abbassare i loro fucili davanti al nuovo e duro nemico. Nel momento più intenso e drammatico della disarticolata resistenza, era mancato del tutto l’appoggio inglese. Ora la preziosa Rodi per la quale gli Stati Maggiori dell’Esercito di Sua Maestà Britannica avevano architettato piani su piani di invasione portandoli a livelli pressoché esecutivi almeno tre volte nel corso del conflitto, stava diventando una fortezza tedesca che per esprimere appieno la propria efficienza doveva in tempi stretti alleggerirsi della inutile presenza di trentacinquemila prigionieri in buona parte decisi alla resistenza passiva e chiusi a ogni volontaria collaborazione. Rodi, terra di limitate risorse e di magazzini semivuoti, non giustificava tanto corredo di braccia inutili che altrove, sul continente, avrebbero viceversa trovato collocazione nel lavoro coatto.
Di qui la necessità di un rapido anche se rischioso sgombero delle bocche superflue, dei sovraccarichi renitenti ed ostili. Con qualunque mezzo, non escluso l’aereo. Con qualsiasi natante, piccolo o grande che fosse, cominciando dal “Donizetti” reso disponibile in tutta fretta mediante un frenetico lavoro di scarico. Primo di una serie di navi “negriere”, il “Donizetti” cominciò ad ingoiare uomini la mattina del 22 settembre. I Tedeschi intendevano stivare almeno 2100 prigionieri negli spazi ove era possibile sistemarne in condizioni già difficili 700; il Col.Arcangioli, da loro incaricato di coordinare l’operazione, s’accorse che dopo l’imbarco del milleseicentesimo uomo non sarebbe stato possibile far posto ad altri senza fare delle stive un infernale carnaio. Di sua iniziativa sospese il tristissimo afflusso su per gli scalandroni, ma i tedeschi non se ne dettero per intesi, ripresero gli imbarchi, e solo quando si resero conto che l’ispessimento bestiale delle presenze nello scafo avrebbe costituito – come Arcangioli insisteva a dimostrare disperandosi – un pericolo per la nave stessa, si fermarono a quota 1800. A 1835 per essere precisi. 256 uomini meno del previsto. 256 uomini che un ripensamento formulato controvoglia all’ultimo istante sottrasse all’appuntamento definitivo col destino.
Annottava quando il “Donizetti” salpò il 22 settembre. Tenendosi sotto la costa orientale di Rodi, diresse per sud – ovest, passò davanti a Lindos e, venne a trovarsi alle or 01,10 poco al largo di Capo Prasso, estrema punta meridionale dell’isola. Lo scortava una silurante con equipaggio tedesco al comando dell’Oberleutnant Jobst Hahndorff. La piccola unità – 610 tonnellate, armata con due cannoni da 100 – era al terzo cambio di mano e dopo essere nata francese col nome “La Pomone”, era diventata FR 42 per la Marina italiana ed infine TA 10 per la Kriegsmarine.
Sulle stesse acque, non troppo profonde ma prossime a precipitarsi nella “fossa di Scàrpanto”, il cacciatorpediniere britannico “Eclipse” colse sul proprio radar i profili delle due unità che procedevano di conserva. La Royal Navy si era impegnata sin dai primi giorni dopo l’armistizio – meglio sarebbe dire sin dalle prime notti – in una vera e propria guerra di corsa tra le isole. Partendo dalle basi lontane di Alessandria e di Cipro, unità veloci battevano i canali di Caso e di Scàrpanto e risalivano verso nord – ovest non sino ai limiti dell’autonomia, ma sino alla calcolatissima copertura delle tenebre. L’obbiettivo era quello di far piazza pulita di qualsiasi natante senza attardarsi mai e con l’ordine di disimpegnarsi a tutto vapore in modo d’essere, all’alba, fuori dall’Egeo e il più lontano possibile dai ricognitori e bombardieri della Luftwaffe.
Quella notte, sul 23 settembre, l'”Eclipse” stava operando una ricerca tra Rodi e Scàrpanto assieme all’unità consorella “Fury”. Più a nord, tra Stampalia ed Amorgos, altri due caccia, il “Faulknor” e il “Vassilissa Olga” – (destinato quest’ultimo, tre giorni più tardi, a colare a picco in coppia con l'”Intrepid” nella baia di Portolago) – stavano conducendo analoga operazione. La messa a punto dell'”Eclipse” prima di aprire il fuoco fu rapidissima. Fulmineo il tiro. Il “Donizetti” affondò in pochi istanti trascinando nel gorgo 600 avieri, 1110 marinai, 114 sottufficiali e 11 ufficiali dei quali, in assenza di sopravvissuti e di liste nominative redatte all’imbarco, non si sono conosciuti i nomi. Con altrettanta rapidità la TA 10 finì la sua randagia carriera sotto le salve implacabili dell”Eclipse”. Trascinatasi alla meglio sino a un centinaio di metri dalla terraferma, posò lo scafo lacerato sugli scogli di Prassonisi lasciando emergere la plancia e il fumaiolo. I superstiti dell’equipaggio trovarono temporaneo rifugio nell’area abbandonata della batteria “Mocenigo”. Il Col.Arcangioli venuto da Rodi col permesso del Comando tedesco per conoscere i dettagli del disastro e raccogliere gli scampati all’ecatombe, non trovò naufraghi ne ebbe notizie di essi dai “matrosen” della TA 10. L'”Eclipse”, da parte sua, dopo i lanci e le salve andate a segno, aveva accuratamente evitato ogni “sur place” e – buon nome non mente – si era eclissato dando il massimo dei giri alle eliche. Solo più tardi seppe di aver firmato la prima grande tragedia dell’Egeo. Una tragedia che una segnalazione tempestiva avrebbe potuto evitare e sulla quale, a posteriori, si sono fabbricate illazioni persino romanzesche peraltro annullate dalla glaciale conferma del “Defence Security Office” del Dodecanneso. Il quale, a una richiesta della Commissione per la tutela degli interessi italiani in Egeo, rispondeva che il “Donizetti” … “was sunk in a naval action south west of Rhodes on 23th september 1943”. Null’altro.
Il naufragio dell'Oria
Purtroppo il caso del “Donizetti” non doveva restare isolato. Non contando le secondarie spedizioni con motozattere e minori natanti dei quali si è persa la storia ma che confidiamo siano tutti approdati al continente, l’11 febbraio 1944 si ebbe una nuova grossa partenza da Rodi. Il cargo adibito al trasporto dei militari entra nel nostro doloroso racconto senza un nome preciso. C’è chi dice fosse uno scafo ex italiano e chi un greco piuttosto male in arnese chiamato “Orion”. Preceduto da un’altra carretta che passò l’Egeo indenne, l'”Oria” salpò da Rodi non sappiamo con quale scorta e arrancò per nord – ovest al meglio delle se bolse macchine. L’Egeo, che non è un mare facile neppure d’estate, scelse il 12 febbraio per esibire le sue furie peggiori e scatenarsi attorno al povero “Orion”. Il vecchio catorcio gli resistette fino a sera, ma nell’oscurità della tempesta che raddoppiava le incombenti tenebre notturne, senza il conforto di un faro cui riferirsi e non più in grado di compensare le straorzate, andò a dare di cozzo sullo scoglio Medina a sole 25 miglia per sud – est dal Pireo, e vi si schiantò affondando rapidamente. Poiché in quel punto i fondali vanno da 5 a 30 metri, l'”Oria” calò di poppa nei flutti lasciando fuor d’acqua la parte prodiera incastrata nei massi. Per l’infuriare degli elementi, i soccorsi tardarono. Il giorno successivo, 13 febbraio, tre rimorchiatori italiani e due greci uscirono dal Pireo e tentarono di avvicinarsi al relitto emergente. Le proibitive condizioni del mare impedirono però qualsiasi efficace manovra, e solo i “Vulcano” poté portarsi vicino al rottame e salvare uno sventurato che ancora si reggeva ai cavi dei bighi di prora. Mentre glia altri rimorchiatori raccoglievano qualche naufrago ancora vivo e alcuni cadaveri – altri corpi sarebbero stati trascinati dal fortunale sulla costa dell’Attica – il personale del “Vulcano” avvertì che dentro le lamiere dell'”Orion” c’erano dei vivi, e con grande rischio, portatosi presso la tragica prora, mise in opera le fiamme ossidriche per aprire un varco. Possiamo soltanto immaginare come si sia svolto l’improbo, eroico lavoro di quelli ignoti marinai decisi a strappare alla morte i naufraghi che invocavano soccorso dal chiuso di stive e gavoni. Tanta abnegazione andò sulle prime frustrata per un colpo di mare che strappò l’apparato autogeno del “Vulcano”. Soltanto il giorno dopo il “Titano”, subentrato all’unità gemella con nuove bombole e cannelli e operando finalmente in condizioni di minor violenza marina, riuscì a liberare cinque uomini che sembravano impazziti.
Nella mappa satellitare il sito del naufragio.
L'”OriA” era partito da Rodi con 43 ufficiali, 118 sottufficiali, e 3885 graduati e militari italiani. Di essi ne furono tratti in salvo 21, assieme a 6 tedeschi, e a un greco. Degli oltre 4000 rimasti anonimi sappiamo soltanto che hanno trovato la loro fossa comune al largo di Capo Sunion – 37° 39′ latitudine nord, 23° 59′ longitudine est a un passo dai porti della vita.
Aggiornamento del gennaio 2011
Gli oltre 4.000 militari italiani deceduti ora non sono più anonimi. dopo un oblio durato decenni la tragedia dell’Oria viene finalmente alla luce grazie all’impegno di alcuni subacquei greci coordinati da Aristotelis Zervoudis . Essi compiono numerose immersioni sul sito dell’affondamento documentando l’entità della tragedia, l’impatto emotivo ed umano di quello che vedono è così forte che li spinge a coinvolgere la comunità locale indagando presso gli anziani dell’isola. Riescono così ad identificare il luogo della pietosa sepoltura dei corpi spiggiati dopo l’affondamento e decidono di costurire un monumento sulla spiaggia del naufragio. Tutta la comunità locale partecipa a quest’iniziativa ed il sindaco decide di mettere a disposizione dei fondi. Contemporaneamente alcuni parenti dei militari italiani deceduti nel naufragio, riesce a rintracciare la lista di tutti i militari imbarcati dopo lunghe e difficili ricerche. Questa lista è uno dei misteri dell’Oria, ritenuta inesistente era in realtà scomparsa nei polverosi archivi italiani, ne vennero trovati indizi negli archivi della Marina mentre alcuni sostenevano che una copia fosse stata custodita presso i francescani di Rodi. Finalmente la sig.ra Barbara Antonini, il cui nonno era scomparso nel naufragio, riuscì a rintracciare la lista presso la Croce Rossa. Grazie alla sua determinazione ed al supporto fornito dal coordinamento dei parenti, molte famiglie dei dispersi in Egeo (circa 15.000 militari) potranno almeno cercare il nome del proprio congiunto e se lo scopriranno in questa lista sapranno almeno dove poter depositare un fiore. Il sito Dodecaneso divulga pubblica per la prima volta, con l’autorizzazione delle famiglie, la lista completa degli imbarcati sull’Oria, si tratta di un documento di eccezionale importanza storica oltrechè umana.
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Chi vuole mettersi in contatto con il coordinamento della famiglie dei deceduti dell’Oria può scrivere a oria@dodecaneso.org